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"Quando a Pirri tutto si fermava per la Festa più attesa dall’intero paese!" di Lucia Sanna

 

Un culto e una devozione, quelli per Santa Maria  Chiara, che affondano radici profonde nel passato e di cui tanto si è scritto e  letto.
Inquadrato dal punto di vista storico e religioso, è arrivato fino a noi attraverso intricati e storici passaggi  di donazioni  fra Regine –reggenti e Ordini religiosi. Parliamo dei primi anni del  1200.

Queste  pagine invece, per parlarne in modo del tutto differente,  con il cuore, attraverso i sentimenti e i ricordi di una bimba che  in modo speciale  e certamente da un osservatorio privilegiato, ha respirato per anni quell’atmosfera  magica, capace di   trasformare  una festa di paese in un evento che riusciva a coinvolgere un’intera comunità ,  aldilà del comune   sentimento religioso,  del ceto sociale o del grado di istruzione. Certo è, senza dubbio alcuno, che in quegli anni 60’, la Chiesa contava un numero decisamente superiore di praticanti.

Non ero ancora venuta al mondo quando nel 1954 mio padre Edmondo Sanna e mia madre Ausilia Picciau  rivestivano il ruolo di   Obriere e  Consorte di quella  Festa che il paese dedicava alla Veneratissima Santa a partire dalla sera del Lunedì dell’Angelo.

Nessun ricordo quindi per me di quell’evento che vide protagonisti i miei genitori, ma  racconti da parte loro si, tanti anzi tantissimi .  La  vecchia “tradizione orale” che   per i bimbi  è spesso  più forte e  affascinante del coinvolgimento diretto.

E’ in questo modo che ho incominciato ad amare questa festa, attraverso le parole che mai mi stancavo di ascoltare e che piano piano mi hanno fatto sentire parte di  quell’evento. Sentivo con orgoglio che era una cosa tutta nostra, una cosa che anche se per pochi giorni  cementava l’unità del paese dove vivevo, ne cambiava comportamenti e atteggiamenti. Era come se una ventata della primavera che era ormai alle porte, arrivasse prima in paese che altrove. Sentivo che cambiavano gli odori e vedevo colori che fino al giorno precedente non c’erano.  

Il mio come ho già accennato è stato certo un osservatorio privilegiato.

Mio padre (classe 1913) faceva infatti parte “ del Comitato per i festeggiamenti” di quel gruppo di adulti, tutti rigorosamente maschi, che a cadenze stabilite si riunivano , la maggior parte delle volte a casa del Presidente di turno, per organizzare l’evento e discutere idee e proposte.


Non era facile, raccontava mio padre, fare progetti senza la minima idea di quanto avrebbe fruttato la questua porta a porta, tanto meno  non era raro sentire le loro voci alterarsi durante le discussioni sempre abbastanza accese,per poi tornare,intercalate da qualche fresca e sonora risata, calme e pacate.

Certo in quegli anni  erano pochi i  soldi e pochi i divertimenti che il paese poteva offrire, né era  in  uso cercarli altrove.

 

Si viveva tranquillamente senza grandi pretese, di cose semplici, di famiglia e affetti, di giochi per strada e di gente che consumata la cena sedeva sugli usci delle case per trovare ristoro alla calura estiva e scambiare quattro chiacchiere con i vicini di casa. Il divertimento nelle notti estive stava tutto li e quello delle notti invernali non esisteva , era fatto  di studio sui libri di scuola, di famiglie riunite intorno a “sa cuppa” il caldo bracere , magari a raccontarsi vecchie storie o a parlare della  giornata appena passata e a organizzare insieme quella che sarebbe iniziata di li a poche ore. Erano si  gli anni del “boom  economico” ,qualcuno  possedeva già la Tv  o il frigorifero, altri la lavatrice, ma la maggior  parte  della gente  lavava ancora la biancheria “ in su sciacquadori” ,grosso mastello di legno, e continuava a  rinfrescare  frutta e  vino calandoli  dentro a un secchio nell’acqua gelata dei pozzi. Alcuni si ritrovavano a gruppi a casa di quelle famiglie  fortunate che possedevano già   la Tv.  

La popolazione era quindi  generosa nelle donazioni. Quei giorni di festa erano i pochi, se non i soli, in cui si viveva in modo del tutto differente, quelle donazioni erano un modo per contribuire tutti insieme alla realizzazione di una festa comune, quasi un’ipoteca  per una breve vacanza che tutti si sarebbero potuti permettere e alla quale tutti avrebbero partecipato, nessuno escluso.

Il primo assaggio di questa festa di popolo era dato dal giorno in cui nella piazza principale del paese  si festeggiava la “pentolaccia”, la manifestazione che concludeva le follie del Carnevale e introduceva in quello che sarebbe stato  il lungo periodo della Quaresima fatto di sobrietà e rinunce. 
Era  il Comitato per i festeggiamenti della Santa che aveva  l’incarico di organizzare l’evento.

Il  divertimento  non escludeva fasce d’età, la partecipazione era corale ma chiaramente per noi bambini  la curiosità e l’eccitazione montavano su già qualche giorno prima.

I più coinvolti chiaramente eravamo noi, i figli dei componenti il comitato, perché era a casa di ognuno di noi che venivano confezionate le “pentole”! In ogni  casa una pentola, riempita con quanto di più estroso e stravagante si potesse pensare.  L’unico scopo era quello divertire la gente, farla incontrare,coinvolgerla in qualcosa di comune.
Dalle pentole in terracotta, sospese per i manici ad una corda tesa in un angolo della piazza prima di imboccare la via Chiesa, ci si aspettava di tutto. Si stava con il naso all’insù   pronti a lanciarsi nella mischia per raccoglierne il contenuto. 

 

A casa  subito dopo  pranzo, le braccia esperte di mia madre andavano avanti e indietro ad impastare le zeppole ,io ci mettevo su lo zucchero e mio padre o mio fratello   tagliavano dagli alberi le arance più grosse e gli ultimi mandarini profumati. Zeppole e frutta finivano dentro la pentola e gli spazi vuoti venivano  riempiti  con crusca, caramelle,cenere e coriandoli, cioccolati, nocciole e monete di piccolo taglio 10…20, 50… lire.

Cimentarsi con l’asta e la benda sugli occhi non era cosa molto semplice, perché a parte queste delizie, alcune pentole contenevano sorprese non sempre gradite. E  così quando al colpo secco dell’asta cadevano insieme ai cocci  topini spaventati che correvano da una parte all’altra tra le gambe della gente ,o peggio ancora  litri d’acqua o polverose cascate di cenere che investivano la folla….questa scappava via di corsa creando un enorme  vuoto tutt’intorno. Piano piano, i più temerari  spesso bagnati, impolverati o  inorriditi  dalla “gymkana” dei topini  ma sempre sorridenti, tornavano  incerti e spaventati  al proprio posto.  E allora si ricominciava da capo ad aspettare curiosi con il naso all’insù chissà quali altre sorprese.

Un anno mio padre ne inventò una davvero fantastica la famosa “pentola d’oro”  Quell’anno l’attesa fu ancora più grande, e più forte la curiosità per quella strana pentola che sembrava provenisse da un vecchio tesoro nascosto.

Io la guardavo orgogliosa luccicare sospesa per aria!  Faceva bella mostra di se fra le altre di terracotta e spingeva tutti quanti a chiedersi che cosa mai potesse contenere all’interno. I più curiosi erano naturalmente i bambini che sgomitando  cercavano di guadagnare un posto in prima fila per avere la meglio sugli altri e raccogliere svelti chissà quale meravigliosa sorpresa.

Era bello per me conoscerne il mistero…….si, perché la magia di quella pentola non stava tanto nel suo contenuto quanto  nella sua “strana” fattura!

Mio padre,  creativo e ridanciano, non si limitò a verniciare la pentola con il colore dell’oro  o a riempirla con chissà quale diavoleria, ma ben immaginando che la curiosità per quello strano colore avrebbe portato tutti quanti a farsi sotto  per raccoglierne il contenuto……sapete cosa fece? Inventò per quella pentola anche un bellissimo coperchio.

Le pentole, da sempre venivano chiuse  con carta straccia, segatura o paglia.

La nostra invece quell’anno aveva anche  il “suo bel  coperchio” in robusto cartone “dorato” , con la sua bella impugnatura in corrispondenza della quale il babbo praticò un  ampio  foro centrale. Tutto quanto all’interno della pentola fu  infilato come le perle di una collana, attraverso un grosso spago, i cui capi, venuti fuori dal foro centrale vennero assicurati per bene all’impugnatura del robusto coperchio.

Inutile raccontare che la gente spingeva, urlando a gran voce,  il bendato temerario di turno  verso la pentola “dorata”, orientandolo con varie indicazioni che spesso avevano l’esito di indirizzarlo da tutt’altra parte, suscitando nella gente grosse risate. E la curiosità cresceva man mano che la panciuta pentola dorata veniva risparmiata dai colpi del bastone.

In mezzo a quella  bolgia di schiamazzi  veniva però anche il suo turno  e allora la sorpresa superava l’immaginazione!

Mentre i cocci dorati si sparpagliavano per terra come monete preziose,  il contenuto restava   saldamente attaccato al robusto coperchio e questo alla corda centrale…..lasciando tutti quanti a bocca asciutta.  I più azzardati non ci stavano ad essere stati presi in giro e allora si cimentavano  senza ritegno, l’uno a cavalcioni dell’altro, nell’impresa di raggiungere quella collana di zeppole, frutta e dolciumi che penzolava come un grappolo d’uva sul suo tralcio.

Il divertimento era al  culmine quando la pila umana raggiungeva lo scopo e spartiva  con i presenti che applaudivano all’impresa, piccoli bocconi del sofferto bottino.

Questo era il biglietto da visita che il Comitato organizzatore della grande Festa presentava alla popolazione prima dell’inizio del periodo Quaresimale. Un biglietto da visita che avrebbe trovato la sua continuità il lunedì  successivo alla Pasqua con l’inizio della Grande Festa.

Ma tutto quanto era divertimento , non ha mai superato il profondo sentimento religioso che i Pirresi nutrivano verso questa Santa che a detta dei più vecchi  aveva scelto il nostro paese come propria dimora, in smacco ai signori della città  che avevano tentato più volte di reclamarne il possesso.

Narra infatti una leggenda, che ritrovato il simulacro della Vergine, andato ormai perduto, e sistematolo su di un carro trascinato dai buoi , questi indirizzarono determinati e sicuri  il proprio cammino verso il paese, lasciandosi alle spalle la città.
Il sentimento di orgoglio per questa scelta ha contribuito certamente ad aumentarne la fede religiosa e la partecipazione corale ai festeggiamenti. Era insomma il  nostro, un atto di fede frammisto a un senso di gratitudine infinita.

La gente non riempiva la piazza principale del paese o le strade interne solo per seguire i festeggiamenti civili, le gare poetiche dialettali , i balli , le pariglie o le corse ciclistiche. Non stava solo  con il naso all’insù  ad incitare i temerari che si cimentavano nell’impossibile scalata all’albero della cuccagna  reso viscido a dovere perché il divertimento durasse più a lungo possibile.

Quei giorni non erano solo puro divertimento, erano un modo per ritrovare una comune identità, per rafforzare e forse confermare un’appartenenza. La gente si accalcava  nei crocicchi delle strade  al passaggio del simulacro e ne seguiva correndo da un punto all’altro del paese  l’intero percorso, fino al rientro in parrocchia, dove il “furgoncino” bardato di raso celeste e gremito di piccoli angeli e bimbe vestite da sposa, faceva fatica ad aprirsi un varco tra la calca della folla. Su quel “camioncino” di fianco al simulacro della Santa c’ero anch’io , con il mio vestito da sposa, il velo e la coroncina di fiori d’arancio e tutte le volte che il babbo con le sue forti braccia mi sistemava su  raccomandandomi che mi tenessi forte forte alla spondina laterale….una sorta di leggerezza dell’animo mi accompagnava durante l’intero percorso.  La banda musicale che ci accompagnava,  rimbombava forte nella mia testa e faceva battere forte anche il mio cuore .

A piedi , con la sua coloratissima “coccarda” appuntata sul petto , stava mio fratello maggiore . Non so se lui abbia mai invidiato me su quel carro….ma io si, ho invidiato lui e non riuscivo a capire perché soltanto gli uomini e i ragazzi dovessero portare al petto quella bellissima “ margherita “ dai colori tanto sgargianti.

Durante quei giorni mio padre era bellissimo con la  giacca buona, la cravatta a pois o a righe  e le scarpe di camoscio marrone. Metteva sui capelli la brillantina profumata e portava un paio di occhiali da sole che gli davano un tocco di mistero.  Anche quell’odore di brillantina che riempiva la casa e profumava i suoi abiti  resta per me strettamente legato a quei giorni di festa.  Mia madre sempre elegante, quei giorni lo era ancora di più con in testa i suoi cappellini primaverili e gli abiti dai colori pastello. E anche a tavola si mangiavano i cibi della festa e festa era anche l’odore del brodo di carne  che ci aspettava al rientro dalla Messa.

E quella festa era per noi ragazzi  momento di  crescita, di piccoli e primi  assaggi di libertà e indipendenza. Solo in quei giorni ci era concesso di stravolgere orari e abitudini. Si pranzava sempre tardi e si scappava via subito dopo  per seguire una gara ciclistica o una partita di calcio e la notte……bè, la notte potevamo star fuori fin quando non finivano “is goccius”, le tradizionali gare poetiche dialettali o “l’orchestrina”, come chiamavamo allora i primi gruppi “moderni e un po’ stravaganti”, che  a detta degli anziani ,si agitavano sul palco facendo solo  un gran bacano. Tiravamo fino a tarda notte  perché le strade brulicavano di gente.

Ci si riuniva a gruppi nella piazza Italia e ogni gruppo aveva una postazione  di appartenenza. I più grandi stavano sulla destra in direzione del salone del barbiere, mentre i più giovani si ritagliavano un posticino un po’ più a sinistra.

Gli adulti e gli anziani occupavano tutto lo spazio a disposizione. Gremivano la piazza paralizzando completamente il traffico che, scorrendo lento, sostava spesso a godere di quella festa di popolo.
Tutto si faceva per il gusto di stare insieme, in mezzo alla gente a chiacchierare e scherzare, mangiare  torrone e quintali di semi salati di zucca fino a spaccarsi la lingua e magari vedere andare avanti e indietro, nella penombra della notte,  la ragazza o il ragazzo del cuore. E  poi si rientrava  a casa sapendo che il giorno seguente tutto si sarebbe ripetuto ancora una volta, ma solo per quell’occasione e non per il resto dell’anno!

La Processione della sera del Lunedì dell’Angelo ripeteva il solito percorso di anno in anno ed era qualcosa di estremamente suggestivo. La vestizione della Vergine era un momento attesissimo. Era come se quel gesto ridesse vita al simulacro dopo un intero anno trascorso, era come se risvegliasse la Santa da un lungo sonno e la preparasse all’incontro con i suoi ospiti ,con il paese intero, che anno dopo anno non si stancava di vederla, anno dopo anno era come se la incontrasse per la prima volta bellissima e impreziosita dalle tante donazioni di meravigliosi gioielli. .  Ancora oggi, quando la guardo attraversare le strade del mio paese, altera ,dentro al cocchio dorato con al collo un gioiello che è stato di mia madre, è come se il tempo  si fosse  fermato……e tutte quelle sensazioni meravigliose dell’infanzia tornano prepotenti a farsi sentire. Un rumore assordante di fuochi artificiali partecipava alla popolazione che la Santa lasciava la dimora di Monte Claro per dirigersi  alla Parrocchia di San Pietro Apostolo e quando a metà del lungo tragitto scendevano le prime ombre della sera, il chiarore tremulo delle candele accese  con i paralumi di carta colorata offrivano insieme ai canti e alle preghiere uno spettacolo di grande suggestione.

Le case illuminate a giorno e gli usci abbelliti con vasi di fiori di ogni genere, contribuivano a creare un’atmosfera irreale…..e la Santa procedeva nel suo cammino e quando ormai buio imboccava la via Chiesa, addobbata con miriadi di luci risplendenti , le campane  cominciavano a suonare prima lente e poi man mano sempre più veloci e più forti, fino a diventare un tutt’uno con i fuochi artificiali e le note musicali e quando ci si ritrovava dirimpetto al portale della Chiesa, all’improvviso una cascata luccicante di girandole impazzite veniva giù dall’alto illuminando l’intero piazzale e Santa Maria Chiara risplendeva come non mai sotto un mare di applausi.

Il percorso della Processione del martedì mattina cambiava invece di anno in anno per far si che la tutta la popolazione godesse del passaggio del Simulacro della Vergine davanti alla propria abitazione.

Le tappe obbligate erano comunque le strade dove vivevano il vice Presidente e il Presidente di turno. Quest’ultima poteva riconoscersi fra mille per la grande quantità di bandierine colorate che, tese come filari da una casa all’altra, ne segnalavano l’inconfondibile  presenza e   agitandosi avanti e indietro  sotto i colpi di vento, facevano un rumore caratteristico come di “applausi a scena aperta”!

Nell’aria si respiravano gli odori delle piante aromatiche che in ogni casa venivano lasciate crescere incolte per essere poi  potate in occasione della Festa.

Salvia e rosmarino, rami teneri di mirto e petali di rose, venivano riversati nelle strade al passaggio della Santa e il calpestio di quella folla immensa ne sprigionava gli odori intensi e inebrianti.

A casa nostra si aspettava quel momento per cimare i cespugli di menta e potare il caprifoglio e il gelsomino che con il loro  profumo dolciastro  ben si sposavano con l’odore forte dell’incenso. Gli usci delle case venivano spalancati insieme alle finestre che venivano addobbate con pezzi di biancheria molto cari e significativi nella vita di ogni famiglia: candide tovaglie ricamate dalle nonne, arazzi avuti in eredità, coltri di ogni genere e fattura e le strade venivano tirate a lucido dalle donne con spazzoloni e acqua corrente. Mia madre , sistemava sui davanzali delle due finestre  due copriletto di raso, uno rosa e uno celeste, erano quelli a lei più cari, che avevano vestito il  letto alla nascita dei suoi due figli.

Quando la Signora Deidda, la mia maestra delle scuole elementari, ci assegnava i compiti per le vacanze Pasquali  dicendo “ Scrivete 10  pensierini su questi giorni di vacanza”…..il mio pensiero certo andava all’imminente   Pasqua,  “ s’incontru” nella piazza del paese gremita di gente, con fuochi artificiali e banda musicale che creavano un mix di emozioni talmente forti da scatenare un lungo e rumoroso applauso da parte della gente, quasi si assistesse ad una rappresentazione teatrale. Poi però il pensiero correva veloce  alla Festa, alla grande Festa, alla nostra Festa, alla Festa di noi Pirresi  che cadendo proprio il giorno successivo alla Pasqua offriva alla cittadinanza tutta ,un assaggio di quelli che poi sarebbero stati con il passare degli anni i “famosi” ponti  festivi. E già, perché per la Festa di S.M.Chiara in paese “tutto si fermava “!!

Gli esercizi commerciali  abbassavano le serrande e quelli che non potevano perché di pubblica utilità, clienti o no , incrociavano le braccia per un attimo e i clienti con loro in segno di grande rispetto e tutti quanti  si assisteva al passaggio della Santa.

E  il corteo non doveva faticare nel procedere in mezzo al traffico, e le note musicali non erano soffocate dal rumore dei motori delle macchine che venivano tenuti educatamente spenti. Il traffico veniva sempre  interrotto per tempo  così che il corteo potesse  occupare l’intera carreggiata e dare quell’immagine di  marea umana dall’ampio respiro.
E la gente al volante non “sbraitava” per quell’intoppo momentaneo ma usciva fuori dalle auto segnandosi la fronte e partecipando per intero a quella Festa di suoni e colori.

E in un momento storico in cui i nostri ragazzi non sanno più che cosa  significhi la parola  “brevis  lectio”, in un momento in cui  le scuole non festeggiano più  le Sacre Ceneri  o il  vecchio  obbligo  Pasquale o l’inaugurazione dell’anno scolastico,  in un momento in cui qualcuno avanza l’ipotesi che il nostro Natale sarà cancellato via, e sostituito da una festa dal nome tanto nordico come “Festa della Neve”,  quello  che oggi sembra ancora più strano è che allora anche le scuole chiudevano i battenti durante i giorni della Grande Festa, dando un’idea dell’importanza dell’evento e invitando in questo modo tutta la popolazione ad una partecipazione di massa.

Il vociare della folla nel piazzale della Chiesa  nell’attesa dell’ uscita  , i colori brillanti dei costumi colpiti e resi ancora più luminosi dal sole splendente, “ s’arramadura” con l’odore preponderante del mirto, “ is crobisi” , traboccanti  di rami  di piante aromatiche e fiori recisi da spargere lungo tutto il percorso, gli stendardi  mossi dal vento e le campane “ cun s’arreppiccu” che avvisavano i ritardatari dell’uscita del simulacro dalla parrocchia……sono tutte immagini molto vive nella mia mente e vive sono le emozioni provate.

”Venite!” sembravano dire quelle campane,“ Venite tutti o spalancate gli usci delle  case perché la Madonna sta per uscire in processione”!

E i ritardatari accorrevano affannati e chi non poteva  iniziava la lunga attesa davanti alle proprie case o nei crocicchi delle strade principali dove si radunava il numero maggiore di persone.  E la Santa si incamminava nella via Chiesa imbandierata e risplendente di sole, accompagnata da canti, preghiere e dalla banda musicale.

Nella piazza Italia ad accoglierla due ali di folla, che gli si richiudevano intorno in un caldo abbraccio per accompagnarla nel suo lungo cammino……..io di fianco al Simulacro osservavo tutto quanto intorno, emozionata e orgogliosa per quella posizione privilegiata. Nell’aria tersa della primavera …..i botti dei fuochi artificiali , le fiammate su nel cielo e le spirali di ricaduta segnate da una lunga coda di fumo e poi  la corsa dei ragazzini a raccoglierne la canna ancora fumante  per custodirla  in casa come fosse  un trofeo, la dimostrazione della partecipazione a quell’evento. L’odore dello zolfo era per me strettamente legato alla festa , per questo me ne riempivo i polmoni per non dimenticarne la sensazione.
Per tutto il percorso risuonavano gli scoppi dei fuochi artificiali.

E il lungo giro per le strade del paese terminava quando la Vergine imboccava di nuovo la via Chiesa e le campane cominciavano a suonare
insistentemente ,annunciando anche a chi non era presente, il rientro in Parrocchia.
Al suono delle campane si mescolava quello delle note musicali. La Banda, sistemata sul lato destro in buon ordine come un picchetto d’onore continuava a suonare per tutto il tempo fin quando il simulacro della Santa non spariva inghiottita da un mare di folla oltre il portale della Chiesa.  

E poi  la Solenne Messa cantata, con noi bambine sistemate tutte quante lungo i gradini dell’altare con i nostri abiti di pizzo bianco e poi  gli angeli vestiti di rosa e celeste con le alucce bianche che si incastravano l’una con l’altra dando origine a qualche piccola e innocente scaramuccia.
Durante la “lunga” predica,  la voce tonante e ammonitrice del sacerdote, non impediva a qualcuno di noi, sopraffatto dalla stanchezza, di sonnecchiare un pochino,  ma gli spari dei fuochi artificiali al momento “dell’Elevazione” interrompevano  bruscamente quel meritato  riposo spaventando terribilmente i più piccoli!

Era così che quella Festa parlava all’intero paese attraverso i colori, i profumi e i rumori,  e quando quello  assordante de su “sparetoriu” arrivava anche nelle case di chi non aveva potuto o voluto partecipare, la gente si inginocchiava segnandosi la fronte e si raccoglieva in preghiera dicendo ai più piccoli “ faeisì sa gruxi…ca funti azziendi Deusu a celu”. 

 

A scuola si rientrava il mercoledì e molti  di noi ci andava ancora con ai piedi  le scarpe buone della festa  e anche con il vestito della festa, nonostante il grembiule lo coprisse tutto.
Era un modo per continuare anche dai banchi della scuola  quei festeggiamenti i cui profumi, gli odori, i rumori continuavano a sentirsi   nell’aria che respiravi .
La festa durava fino al giovedì, con qualche strascico anche il venerdì, finali di calcetto, premiazioni, ultime gare di “gymkana”. Ma era la cerimonia della “Svestizione” che  concludeva definitivamente i festeggiamenti. Tutto quel fermento che aveva animato il paese per tutti quei giorni passati si placava e la vita riprendeva la solita routine arricchita però di un bagaglio di ricordi che ognuno di noi si sarebbe portato appresso nel tempo.

Ogni anno terminata la festa ogni cosa andava registrata su di un grosso quadernone dalla copertina verde smeraldo.

Quando quel “librone” arrivava a casa, era come se custodissimo una reliquia.
Lo si apriva e sfogliava con estremo rispetto.
Era mio padre che aveva l’incarico  di compilare il “ Registro” della festa che lui stesso pensò di impiantare  nel lontano 1953.
Terminata la cena e fatto spazio sul tavolo della cucina, con le sue matite colorate, dava vita a quello che, a me bambina, sembrava come un grande capolavoro. E lo era davvero.

Su una pagina candida come la neve lui cominciava a scriverci su  con i suoi pastelli colorati,  lettere e date . Tutto sembrava un bellissimo ricamo! In ogni pagina ci scriveva su, l’anno corrente, il nome del Presidente e quello del vice, il nome del segretario e quello del cassiere, e poi tutte le quote raccolte durante la questua porta a porta e tutte le spese fatte. La sua mano scorreva calma e sicura e io rimanevo a guardarlo incantata. Era come se quelle lettere prendessero vita. Ogni anno un carattere differente e ogni anno un colore differente.  Era un lavoro lungo e affascinante che gli portava via ore di sonno e di riposo. Forse ho appreso  in quei particolari momenti  il gusto per il bello e  l’ amore per la  “bella scrittura”.

Ancora oggi questa Festa mi rallegra  il  cuore e scatena in me sentimenti di orgoglio e appartenenza. Ancora oggi qualcosa  in quei giorni  mi fa sentire  diversa, mi fa sentire a casa, tra la mia gente.

Per tutto questo voglio ringraziare i miei genitori che hanno saputo regalarmi una fonte inesauribile di emozioni, non effimere, che  mi accompagneranno sempre durante la  vita.    

                                                                                          
Lucia Sanna

 

Cara Lucia, grazie di vero cuore per aver condiviso con noi il tuo prezioso ricordo e le tue emozioni.