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Il santuario di Santa Maria Chiara

 

Il santuario di Santa Maria Chiara, che comunica attraverso un grande portale con il museo, oltre a custodire l'antico simulacro della Vergine in una nicchia murale retrostante l'unico altare, presenta una serie di statue, disposte in nicchie ricavate nelle partei laterali, tre a sinistra e quattro a destra. Qui possiamo osservare i simulacri di Sant'Elena (1927); di San Francesco da Paola ( seconda metà del '700); della Madonna del Rosario, donata da Emilio Ruggeri (1943) e restaurata nel 2005 a cura di Antonina Marini in memoria del figlio Marino Pinna; di Sant'Ignazio da Laconi, offerta dai coniugi Giovanni Serci e Caterina Ruggeri (1961). Troviamo inoltre a sinistra, quelli di San Luigi Gonzaga (1925), di San Pietro Apostolo, dono dei fratelli Francesco e Bonaria Farci (1972) e dell'Immacolata.

Tratto da "Pirri, paese antico" di Maria Rosaria Lai

Speciale: I gioielli di Santa Maria Chiara: Origine del culto e della devozione per la Santa, la cappella in Monte Claro e il Comitato... Leggi>

Rovistando tra i vecchi ricordi, ho ritrovato un opuscolo intitolato "Sunto storico della tradizionale festività di Santa Maria Chiara". L'autore del libretto e compositore de Is Goccius è il Signor Porru Mario. Tale opuscolo, la cui realizzazione potrebbe risalire agli anni '70 fu realizzato grazie a Mascia Cesira, Alfredo Locci, Profumeria Paola, Maria Lai e Puddu Gesuina.
L'intero ricavato della vendita andò alla parrocchia che lo impiegò in un opera importante che stava a cuore al popolo di Pirri, ossia la suoneria automatica delle campane. Il signor Porru, come lui stesso racconta, "condensò la storia con brevi cenni che riguardano le usanze del passato e il bagaglio di una generosa e onesta generazione."

 


S'ortu de Miglior

Per venire a conoscenza dell'inizio dei festeggiamenti in onore di Santa Maria Chiara è necessario riandare anteriormente al secolo XIII, e cioè quando cominciarono a germogliare in Sardegna monasteri di vari Ordini religiosi, quasi tutti di provenienza Toscana quali Benedettini, camaldolesi, cistercensi e vallambrosiani. Ed è pertanto prima del secolo XIII che sorse, alle falde dello storico "Castello-Fortezza" di San Michele (in sardo Santu Miali) il monastero dei monaci di Chiaravalle.

Per la storia, tale Ordine, è stato fondato in Francia, modificato da San Bernardo, tra il 1113 e il 1115, il quale lo inalzò, con delle sagge riforme, a grande fulgore, tanto che i monaci di Chiaravalle assunsero, in seguito, il nome di Monaci di San Bernardo.
Il suddetto Monastero quindi sorse ai piedi del citato castello; e più precisamente nell'interno di una vasta tenuta in cui era inclusa l'area più vistosa dell' ospedale psichiatrico (il manicomio), soprannominato dalla vecchia guardia cagliaritana " Villa Clara", che sarebbe la parte che confina con l'attuale via Cadello.
La tenuta per un buon tratto era coltivata dagli stessi frati ad orticultura ed era conosciuta con il nome de " S'Ortu de Miglior" ( 1841-1881): In questi anni funzionava da Rettore il rimpianto Bernardi e l'orto era posseduto da Francesco Miglior ( cagliaritano).


Una leggenda

In un punto non bene precisato si vuole attribuire l'esistenza del Romitorio di "Santa Maria de Claro". Infatti nel punto in cui si presume che sorgeva il monastero dell'Ordine di Chiaravalle si notava ancora nel 1940 un rudere di muricciolo e si diceva che fosse quello in cui era eretto il Romitorio. Al riguardo però si fa viva una leggenda storicamente non confermata che dice, che tale Romitorio, apparteneva alla Parrocchia di un antico paese esistito nella località, ma che se ne è perso il nome. La leggenda narra che gli abitanti del paese sconosciuto colpiti da una grave pestilenza abbandonarono le loro case e si rifugiarono in Pirri. Spinto dal desiderio di trovare un nesso che avalli la leggenda mi riporto allo storico Castello di San Michele.
Per la storia, il Castello-Fortezza, è stato eretto nella collina estrema tra via Bingia Matta e via Is Mirrionis e si presenta, agli occhi del visitatore, con una pianta quadrangolare e con tre torri, due delle quali sono coeve, la terza che è la più alta, è ritenuta di costruzione posteriore. La struttura di questo antico maniero ha subito, nel corso dei secoli, diverse modifiche, per cui non risponde più a quella originaria. Nel 1820 è stato adibito a ricovero degli invalidi della città; in seguito fu trascurato e vandalicamente usato dai pastori a ricovero di armenti. Tale sconcio, durò sino al 1896, poi venne ripulito e usato dalla Marina Militare. Anticamente il Castello-Fortezza era delimitato da un profondo fossato di isolamento e si accedeva mediante un ponte levatoio.
Uno stemma rimasto scolpito sul frontone dell'ingresso principale permette di individuare i costruttori: i pisani che lo inalzarono nel XIII secolo sopra rovine di un chiostro di Certosi, il che permetteva loroo di tenere sottocchi tutta la vasta piana del Campidano. Nell'anno 1652, Cagliari fu colpita da una grave pestilenza e il Castello venne adibito a lazzaretto. Che la leggenda intenda riferirsi a questa pestilenza?



Il Romitorio

Del Romitorio di Santa Maria Chiara sì ha memoria nel (1442): lo scritto che lo conferma lo si trova in un legato di un certo Antoni Pol, lasciato alla cappella di San Pietro martire in San Domenico a Cagliari, nel quale vi si legge, che, in quell'anno, egli legò molti censi, a cui si attribuiscono 25 possessioni, site nei pressi dei romitori di «Santa Maria de Claro» e di San Nicolò in Vidrano». (Vídrano è la zona di Sant'Alenixedda).
I suddetti romitori erano sotto il governo della Parrocchia di San Pietro Apostolo in Pirri. Dietro questa testimonianza cade la leggenda che fa menzione dell'antico Paese, salvo che la sua esistenza risalga ai secoli precedenti; e cioè che abbia a che fare con il chiostro dei Cestosi di già menzionato.
Il nostro Romitorio quindi esisteva anche al tempo dello storico Padre Alèo; e cioè nel 1680. Inoltre ci sono altre prove che convalidano la sua esistenza ancora per oltre un secolo. Una conferma la si trova in una campana lasciata alla locale chiesetta di Santa Rosalia che porta questa scritta: "Santa Maria Chiara 1775" . La campana risulta conservata nel Municipio di Pirri: senza dubbio l'ha presa in consegna l'autorità comunale di quegli anni.
Sarebbe interessante sapere se la campana sia ancora reperibile. A distanza di due secoli mi sembra impossibile il suo recupero; perché può darsi che sia andata a finire nelle mani di privati e sia stata fusa, dato l'irrilevante valore.
Un'altra verace testimonianza della presenza del Romitorio la si trova nel Dizionario storico geografico del Casalis, la quale fa preciso riferimento ai romitori sotto il governo del rettorato di Pirri; ed afferma, che, nel (1847), esisteva, nella vicina campagna, il Romitorio di Santa Maria Chiara. Quindi non ci sono dubbi sull'esistenza di quel Romitorio!


La tradizione

Come da tradizione, il martedì ed il mercoledì dopo la santa Pasqua, si festeggia «Santa Maria Chiara». In passato però i festeggiamenti si protraevano per l'intera settimana successiva alla Santa Pasqua ed il mercoledì la Messa solenne veniva dedicata a «Santa Maria Claredda»: un affettuoso vezzeggiativo che molto probabilmente i più anziani usano ancor oggi. All'ottavario (almeno sino al tempo del rettorato dell'indimenticabile dottor Barra) si portavano in processione i tre simulacri «il Cristo risorto con le due Madonne», ed occorrevano per le tre portantine dodici uomini con delle riserve.
In quello ormai lontano passato le feste patronali o comunque di altri santi molto popolari, magari legate a delle vecchie tradizioni come la nostra Santa Maria Chiara, assumevano una importanza del tutto straordinaria sia a causa dello sviluppo commerciale che era in stato dì arretratezza, sia per la più sen­tîta devozione e venerazione dei santi di quella vecchia generazione.
Io ne ricordo tanti di santi tradizionalmente festeggiati, molti dei quali sono stati messi fuori dal calendario e collocati a riposo; uno tra i quali «Sant'Isìdoro» Patrono degli agricoltori.
Di questo santo rammento soprattutto la processione, dove sfilavano con ordine tanti giuoghi di buoi baldati a festa, adorni da variopinti striscioni ripieni di tintinnanti campanelli e di mazzi di fiori campestri con delle arance e dei limoni infilati alle corna. Vi prendevano parte, in misura limitata, anche dei cavalli, pure questi con vistosi ornamenti (mudaus), uno dei quali veniva fatto camminare dal cavaliere a testa indietro (scula scula).
Ma c'erano altre varie consuetudini legate alle grandi festività, come quella che favoriva - specie nei balli - degli incontri amorosi che, spesse volte, finivano con il matrimonio.
Un'altra consuetudine era quella di trovare, nel corso dei festeggiamenti, elementi di fiducia dei due sessi disposti ad ac­cordarsi (meris in circa de serbidoris ). E' ovvio che tutto questo avveniva per i festeggiamenti di Santa Maria Chiara. Infatti nel posto affluivano, da ogni parte dell'Isola, (e vi rimanevano per tutta la durata dei festeggiamenti) «is bendidoris de Nuxedda e Turronis, de Disquas de fare casu, de Palias de forru, Fruc­conis Turras e Talleris, Isciveddas e Vasus de notti a quattru manigas, Stòias e Cadìnus, Cadiras e Scannus de Feurra che acquistavano le famiglie povere, de Stresciu 'e Fenu». Quest'ultimo interessava, in ragione del novanta per cento, le brave massaie. Ricordo, che, in quella lontana epoca, le ragazze che contraevano matrimonio portavano, unitamente all'arredamento della nuova casa, il fabbisogno de' «su Stresciu 'e Fenu»; (Crobis, Canisteddus, Palineddas, Sedazzus, Ciulirus de xerri, Cuffinus ecc. ... ) .
Oggetti preziosi che le massaie usavano quotidianamente nelle complicate e disagiate faccende casalinghe, in primo piano il setacciamento della farina con la lavorazione e cottura del pane. I preparativi per l'impasto della farina con il lièvito (su framentu) avvenivano, di solito, di venerdì dopo la mezzanotte. Attorno al grande tavolo di legno (sa mesa de ciuexi) si notavano anche uomini, specie in quelle famiglie che disponevano di servitù maschile (su sozzu c su boinasciu).
Nella lavorazione del pane, in modo particolare per le feste maggiori, le brave massaie si sbizzarrivano formando figure di ogni genere «is Coccois de sa festa», letizia dei bambini. Il pane lo si sfornava il sabato in mattinata e, quando la cottura si protraeva oltre il previsto si diceva, ai piccoli impazienti, (famini finas a coi non esti famini malu).
Torno per un attimo a (su Strexu 'e Fenu) parlerò di quelle fortunate ragazze che appartenevano a delle famiglie agiate che, oltre alla normale attrezzatura, portavano, unitamente alla dote, un'altra varietà di «Corbule, di Canestri, di canestrini e di cestini di varie dimensioni», il tutto artisticamente lavorato da mani esperte. Questi oggetti, per i variopinti disegni, erano considerati di lusso, per cui venivano appesi alle pareti di una apposita camera (s'Aposentu de su Strexiu e' Fenu). La camera, certamente per attirare l'attenzione, la si lasciava semi-aperta e, spesse volte, in mancanza di meglio, funzionava da camera di ricevimento.


Il matrimonio

Quando un giovane decideva di prender moglie (coiai) mandava - come da usanza - un uomo di fiducia dai genitori della fanciulla prescelta per chiedere la mano.
Questa persona (il Paralimpu) poteva essere il padre, un parente, un amico ed in certi casi anche il prete.
Ma poteva trattarsi anche del solito «Ruffiano» del paese, mestierante scaltro, astuto e di riflessi pronti. Il paralimpu generalmente intavolava un discorso di attesa e, solo quando li veniva rivolta la domanda (ita bolid o bolis), senza alcun turbamento pronunziava - come se le avesse scolpite nella memoria - le solite frasi d'uso: (mi mandad su tali po domandai sa manu de sa filla o fizza) e ne pronunziava il nome.
A quel punto veniva chiamata la ragazza - sino a quel momento tenuta in disparte - per essere interpellata dai genitori, se intendeva accettare o respingere la proposta di matrimonio. La risposta non poteva essere che positiva, dato che si trattava di una vecchia formula che tutti amavano rispettare. Raramente avveniva un ripensamento, in tal caso c'era di mezzo una vendetta. I preparativi per il matrimonio iniziavano una settimana prima della data fissata per le nozze con il trasporto, nella casa novella, dei beni della sposa. Per il trasporto venivano usati carri a buoi addobbati a festa; i carri potevano essere anche venti se si trattava di famiglia benestanti. Gli oggetti fragili o delicati venivano portati a mano da ragazzi e ragazze in abito festivo (su bistiri bonu). Nella lunga fila si notavano le ragazze con in testa dei canestri e canestrini ripieni di biancheria (su corredu). Il lungo corteo era condotto dall'immancabile suonatore di launeddas. Per ultimo il carro che portava il màcino (sa mola) con l'asinello legato dietro. Il giorno delle nozze, all'uscita di Chiesa, gli sposi venivano cosparsi de' «Arazia», sale grano e coriandoli come auspicio di grazia. All'ingresso della casa novella la madre dello sposo dopo aver cosparso gli sposi e frantumato il piatto che conteneva s'arazia porgeva, alla nuora, in segno di padronanza, le chiavi.


Su Ballu de Missamanna

Dell'età fanciulla mi è rimasto vivo nella memoria il divertimento più sentito da quella generazione (il Ballo Sardo). In modo del tutto particolare ricordo quello che dava più all'occhio (su Ballu de Vlissamanna ); ballo che aveva luogo nel piazzale della Chiesa subito dopo aver reso testimonianza di fede al Signore. Quella Messa, celebrata con rito solenne, durava circa tre ore, tenendo conto anche della lunga ma piacevole omelìa, a cui si univa, alla fine della Messa, l'esposizione del «Santissimo» che sostituiva la funzione serale: tuttavia i fedeli l'ascoltavano senza segni di noia o di stanchezza.
Ricordo che era sempre affollatissirna «sa Missamanna»: soprattutto di giovani innamorati e, durante il rito religioso, incrociavano intensamente e tacitamente i loro sguardi pieni di amore e di dolci sogni. Le donne a capo coperto stavano sempre alla sinistra gli uomini alla destra: difficilmente o almeno raramente si verificava una intromissione dell'uno e dell'altro sesso e, se capitava, veniva subito richiamato.Tanto era sentito l'ordine e la morale.
Il ballo iniziava verso le quattordici e vi prendevano parte tre suonatori: Uno con l'Organetto, uno con i Pifferi (Launeddas) e l'altro con il Tamburello. Così si formava il grande cerchio a cui partecipavano elementi di tutte le età: coppie di anziani, di giovani sposi, di innamorati che si tenevano stretti per mano, unica occasione per scambiarsi qualche frase d'amore. Era certamente un'attimo di composta allegria, dove giovani e anziani mettevano in mostra la propria bravura eseguendo con spontaneità frenetiche mosse (cun sa Sciampita e su Passu Appuntau).
Anche le donne - pur senza movimenti acrobatici - si distrigavano abbastanza bene, nonostante il voluminoso abbigliamento. Erano meravigliose, dignitose con indosso il ricco costume sfavillante d'oro e dì rìcamì. Spìccava «sa Camisa bianca imbidonada, su Cossu ricamau cun is buttonis de oru o de prata, sa Baschina o Brusetta de rasu, lasciata aperta in modo da tenere libero il petto dove splendevano i vari monìli d'oro (is prendas ), sa Gunnedda o Faldetta de bordau a striscioni rossi scendente sino alle caviglie, cun su Deventali de seda ricamau». Un completo che donava grazia e personalità a quelle modeste semplici giovinette.
Nell'abbigliamento maschile invece c'era di già in atto un radicale cambiamento. Infatti soltanto i più anziani indossavano ancora l’abito tradizionale dì orbace (Carzonis de Arroda). Sul colletto bianco inamidato della camicia, spesse volte, facevano capolino dei pidocchi, piaga che abbondava in quell'epoca condizionata dalla miseria e dalla povertà di mezzi atti a debellarla.
Poi c'erano i poveri che accorrevano da ogni parte dell'Isola in occasione delle grandi festività. (Deus grazìas, sa merì, si dda fàidi sa limìaina a su pòberu?) dicevano con voce melliflua. Nel ricevere il tozzo di pane od altro alimento (rara l'elemosina in danaro perché pochissimi ne possedevano) se ne andavano lasciando dietro di loro una filastrocca di benedizioni. Era l'era dei cinque e dei dieci centesimi (de is Tresarrialis e de i Soddus, de sa baiocca de zùccuru e s'atru in caffèi); dieci centesimi per lo zucchero e cinque per il caffè. Di certo era un dare e ricevere senza segni di diniego o di protesta: infatti sì può ben dire che li vigeva l'amore e la carità.
In questo nostro tempo manca l'amore, la carità e la giustizia, soprattutto la pace dello spirito, della comunione con Dio.


La rissa

Un anno (la data non è stata raccolta dagli storici) mentre erano in corso i festeggiamenti l'esultanza dei due principali protagonisti (cagliaritani e pirresi) veniva turbata da una sanguinosa rissa che purtroppo degenerava in tragedia. Anche qui sono rimaste senza dati le cause che la determinarono. A sostegno corrono due voci popolari: una voce la vuole attribuire all'antagonismo che di solito soleva turbare lo spirito dei due che si contendevano il venerato simulacro della Madonna; l'altra voce invece a delle gelosie di donne. In verità tali episodi di intolleranza avvenivano sovente in quel periodo; infatti ba­stava che una mano d'uomo sfiorasse, anche involontariamente, una donna in presenza de «su Pobiddu o de su Picciocu» che si accendevano subito delle furiose mischie. Dalle parole si passava alle mani e volavano pugni e cazzotti con qualche col­tellata. Queste risse erano frequenti durante i balli pubblici ed avvenivano principalmente per causa di donne.
Fatto sta che in quel luogo non echeggiarono più le festose voci, non ebbero più luogo le ferventi preghiere dei devoti e dei pellegrini, molti dei quali, in richiesta di grazie ci andavano scalzi e a digiuno. Tanta era la fede di quella generazione! Oggi le chiamano scemenze. A distanza di secoli viene da chiederci: per quanto tempo è rimasto deserto il Romitorio? La storia tace! Rimangono da vagliare le date che ne fanno testimonianze: legato di Antoni Pol (1442), riferimento del Padre Alèo (1680), la scritta della campana (1775), l'affermazione del Casalis (1847), l'attestato del Rettore Bernardi (1841-1881). Quale delle ultime quattro date segna la fine od il ripristino dei festeggiamenti?


Voci di vegliardi

Intanto sino ad oggi nessuno è stato in grado di dare una risposta, un utile chiarimento. In ogni modo rimane scoperta la data della rissa e la causa che la determinò. La data in cui è sorto il monastero dell'Ordine di Chiaravalle non va vista nel 1442, ma va ricercata negli anni (1064-1200), tenendosi all'attestato del Costa. Riguardo alla rissa è da credere, che il Romitorio, si trovasse ubicato tra i due confinanti territori, di qui la disputa dei due contendenti. Ma è anche vero, che il Romitorio, era sotto la giurisdizione della Parrocchia di Pirri; lo attesta il documento di Antoni Pol, motivo questo che dava una certa padronanza ai pirresi. Dal loro canto i cagliaritani, oltre alla parte territoriale, si facevano forti sia perché la tenuta era posseduta da un loro concittadino, sia perché erano sotto il patrocinio della nobiltà feudale che, in quel periodo, dettava legge.
Personalmente ho attinto da alcuni vegliardi locali che un anno, i pirresi, ansiosi com'erano di riprendere i festeggiamenti, addobbarono un carro trainato da un giogo di buoi, ci misero sopra - con il consenso del Rettore di Pirri - il simulacro della Madonna lasciando alla coppia degli animali la scelta della strada e questi, pur disposti in senso opposto, con un clamoroso giravolta si avviarono verso Pirri. Naturalmente la folla che aveva preso parte gridava al miracolo! Santa Maria Chiara ha fatto la sua scelta andavano dicendo le donne ani­mate da una grande fede. Così la Madonna Santissima venne portata trionfalmente in processione con il canto del Rosario nella Parrocchia di Pirri, dove venne cantato l'inno di ringraziamento al Signore il «Tedèum».
Da allora i festeggiamenti in Suo onore non subirono alcuna interruzione. E' da tener presente, che, in quella lontana epoca feudale, i festeggiamenti di Santa Maria Chiara erano di dominio della nobiltà, per cui non esistevano comitati popolari.


I Romitori

Penso che i lettori abbiano compreso che i romitori altro non sono che delle chiesette campestri custodite da persone conosciute con il nome de' «s'Eremita»; persone di fede viva che amavano vivere in solitudine, lontane dal chiasso del mondo. La tradizione narra che l'Eremita usciva spesso in giro - nei paesi limìtrofi - portante una cassetta di legno a tracolla, dentro la quale custodiva gelosamente un piccolo simulacro o altra effige sacra che usava porgere al bacio a quelle persone che amorevolmente offrivano l'obolo.


Gli ordini religiosi

Il Costa, nei quattro volumi di «SASSARI», dice che gli «Ordini» religiosi in Sardegna sono stati introdotti a cominciare dall'anno (1000). I benedettini furono richiesti dal Giudice Ba­risone primo (Principe sardo, figlio di Gunnario, Giudice di Torres) all'Abate Desiderio, Priore di Cassino. Successe che la nave dove furono imbarcati i benedettini venne assalita dai pisani che imbestialiti, spogliarono i frati e li ributtarono nella spiaggia: i poveri frati rientrarono a Cassino umiliati e alquanto malconci. Di conseguenza ne nasceva una vibrante protesta da parte del Giudice sardo; protesta che valse ad ottenere, dai pisani, una riparazione. L’ Abate Desiderio rinnovava, nell'anno 1064 una seconda spedizione, così i benedettini poterono stabilirsi con tutta tranquillità nell'Isola.


Il Santuario

Nell'anno 1966 il reverendo Parroco don Gesuino Setzu (naturalmente a spese del sempre generoso popolo di Pirri) fece costruire due saloni della grandezza ciascuno di circa (80 mq.); uno lo adibì a museo,  l'altro lo dedicò a «Santuario di Santa Maria Chiara».
I due bellissimi saloni sono stati tratti da una fetta di terreno a triangolo rimasta inoperosa da secoli dietro l'altare maggiore: ma l'opera però la si è potuta realizzare grazie ad un'altra aggiuntiva fetta di terreno donata dall'amico G. S. in adempimento di una promessa fatta alla Chiesa dalla defunta moglie Ruggeri Esterina.
La fetta in donazione è di circa (200 mq.) ed abbraccia tutta l'estensione dei due confinanti recinti. Il cortile parrocchiale però è al di sopra di circa quattro metri da quello del donatore, quindi per congiungere la fetta di terreno in dona­zione si è reso necessario un rialzo in cemento armato con sei grossi pilastri onde rendere solida la soletta che si è congiunta al recinto parrocchiale, che si è ingrandito di circa (100 mq.).

L'opera al completo è venuta a costare oltre otto milioni. Sia il Santuario che il Museo sono stati inaugurati l'anno successivo (1967) nella ricorrenza della Santa Pasqua, ed è stato un'avvenimento festeggiatissimo. L'occhio del solerte Parroco vide la impellente necessità della Parrocchia ed ebbe la saggezza di far costruire i due grandiosi saloni, a cui va un doveroso atto di riconoscenza.


La figura del parrocco

Don Gesuino Setzu (autore dell'opera menzionata, a cui s'aggiunse, in seguito, il rinnovamento interno della Chiesa) governò con polso di ferro per circa ventisei anni la Parrocchia di San Pietro Apostolo in Pirri. Uomo di carattere forte, a volte burbero e collerico, a volte buono e gentile. In ogni modo sapeva usare a meraviglia anche le buone maniere ed una certa signorilità. Un ministro modello no! ma un buon sacerdote sì! Insomma come tutti i mortali aveva pregi e difetti.
Dopo un anno di prolungate sofferenze si spense all'Ospedale di Cagliari il 13 novembre del (1974): la sua salma e stata tumulata a Samassi, suo paese natìo. Lo accompagnarono, in muta preghiera, una settantina di fedeli io compreso sino alla Parrocchia di Samassi dove ascoltammo, con una certa commozione, la seconda Messa corpore praesente. (Sono stati messi a disposizione del mesto corteo tre autobus). Eravamo tutti a conoscenza del suo male, un male che non perdona! Lo visitai spessamente durante la tormentata degenza in Ospedale: sinceramente debbo dire che tanta sofferenza mi toccò il cuore e lo piansi. Egli sostituì lo stimato dottor Aresti di buona memoria, morto in povertà nella Chiesa di Sant'Efisio a Cagliari. I pirresi ebbero il torto di protestarlo a causa della sua debolezza; di lì il suo trasferimento. Lo riabilitarono da morto trasportando la sua salma nel cimitero locale.

 

GOCCIUS IN ONORI DE SANTA MARIA CHIARA

Ritornellu: Proteggi su popolo interu
Maria Clara / Mamma invocada.

Sa pobera menti mia
non esti a s'altesa
de decantai sa bellesa
de custa creatura
nàscia tottu pura
i senu de s'umanidadi
o Divina maestadi
de grazias circondada.

Ritornellu: Proteggi su popolo interu
Maria Clara / Mamma invocada.

De su xelu sa porta
spalanca o Maria
e càstia o Mamma mia
is filius tus in sa terra
ca sunti sempiri in gherra
prenus de odius e de rancoris
placa Tui is furoris
de s’umanidadi tribuliada.

Ritornellu: Proteggi su populu interu
Maria Clara / Mamma invocada.

De tanti titulus Regina
Sovrana in celu e in terra
o beneditta serra
de grazias dispensatrici
de is peccadoris arrici
una supplica / una preghiera
 e sa cristianidadi intera
siad in Cristu affratellada.

Ritornellu: Proteggi su populu interu
Maria Clara / Mamma invocada.

Mamma Santa / Mamma Potenti
Tempiu de tottus is virtudis
a is fillus tus accudis
elargendi tantis favoris
sa chi sànada is dolorís
de tottus is sofferentis
puru de is morentis
ses Tui s'abogada.

Ritornellu: Proteggi su populu interu
Maria Clara / Mamma invocada.

O Vergini Santissima
de luxi risplendenti
tottu su populu ferventi
accùrridi a peis tusu
in nòmini de Gesusu
o Mamma ses pregada.

Ritornellu: Proteggi su populu interu
Maria Clara / Mamma invocada.
.
Amori paxi e giustizia
is ominis reclamant
a Tui si raccumandant
o Fonti de misericordia
po chi torrid sa concordia
 in cust'era arroventada.

Ritornellu: Proteggi su populu interu
Maria Clara / Mamma invocada.

P.M.